"I fratelli Karamazov sono il romanzo più grandioso che mai sia stato scritto, l'episodio del Grande Inquisitore è uno dei vertici della letteratura universale, un capitolo di bellezza inestimabile... Non è certo un caso che tre capolavori di tutti i tempi trattino lo stesso tema, il parricidio: alludiamo all'Edipo re di Sofocle, all'Amleto di Shakespeare e ai Fratelli Karamazov di Dostoevskij. In tutte e tre le opere è messo a nudo anche il motivo del misfatto: la rivalità sessuale per il possesso della donna." (Sigmund Freud)
Il principe Myskin, ultimo erede di una nobile famiglia decaduta, è "uno che cerca nell'intimo della sua coscienza le motivazioni essenziali del suo modo di essere", mosso dalla candida fede nella fratellanza umana e dal proposito di fare il proprio dovere con onestà e sincerità. Tornato a Pietroburgo dopo un lungo soggiorno in Svizzera per curarsi dell'epilessia, viene travolto dalla vicenda di Nastas'ja Filippovna. Decide di chiederla in moglie per sottrarla ai suoi due contendenti: il violento Rogozin, che per un amore folle alza la propria offerta in denaro, e il segretario del generale Epancim, Ganja, che mira invece alla dote. Ma Nastas'ja, turbata dalla proposta, fugge con Rogozin, mentre del principe si innamora Aglaja, la figlia del generale.
I tre figli di Fedor Karamazov, un vecchio malvagio e dissoluto, sono molto diversi tra loro. Dmitrij, detto Mitja, odia il padre perché vuole conquistare col suo denaro Grusenka, una bella mantenuta da lui amata. Ivan è un filosofo dell'ateismo e un raffinato intellettuale. Alesa, il più giovane, è novizio in un convento e si trova costretto a tornare a casa per il precipitare degli eventi. Infine un quarto figlio illegittimo è Smerdiakov, epilettico e tenuto in casa come un servo. Il vecchio viene ucciso, è accusato del delitto Mitja, ma Smerdakov confessa a Ivan di essere lui il colpevole, poi si impicca. Mitja viene condannato ai lavori forzati, Ivan è colpito da una febbre cerebrale, Alesa riprende con alcuni giovani la via della spiritualità. Introduzione di Fausto Malcovati.
Al centro delle "Notti bianche" - racconto pubblicato per la prima volta nel 1848 - c'è un sognatore, un giovane che vive una vita tutta sua, avulsa dalla realtà, fatta di chimere, fantasticherie, impalpabili emozioni. Nelle calde notti senza tramonto di una Pietroburgo estiva e deserta, il timido e notturno protagonista, triste vittima della vita urbana, vagabonda senza meta per la città fra palazzi e canali, e sogna a occhi aperti. Proverà a inseguire l'amore: quello della bella e appassionata Nasten'ka, che però ama, desidera, attende un altro. Così, dopo quattro notti di esaltata eccitazione, l'ultimo mattino porta con sé un amaro risveglio: il disincanto di un addio. Introduzione di Fausto Malcovati.
Millecinquecento anni dopo la sua morte, a Siviglia, Cristo torna sulla terra. Cammina per le strade della città spagnola dove, alla presenza di tutti i cittadini, il cardinale Grande Inquisitore sta consegnando al rogo un centinaio di eretici. Il suo arrivo è silenzioso, eppure il popolo lo riconosce, circonda, è pronto a seguirlo. Ma in quel momento il Grande Inquisitore attraversa la piazza, si ferma a guardare la folla, incupito. Poi ordina alle sue guardie di catturare Cristo e rinchiuderlo in prigione. Nell'oscurità del carcere, il vecchio e potente ministro della Chiesa pronuncia contro il Messia un fortissimo atto d'accusa, condannandolo a morte. In questo episodio dalla dignità autonoma dei Fratelli Karamazov Fëdor Dostoevskij afferma il proprio pensiero filosofico-religioso: la libertà dell'essere umano si basa su una fede senza dogmi e miracoli, senza gerarchie e autorità, contrapposta alla dottrina che in nome di un mandato superiore e indiscutibile sottrae agli uomini la consapevolezza di sé e il libero arbitrio. Sulla straordinaria attualità di questa riflessione si incentra il saggio di Gherardo Colombo: la massima sofferenza dell'uomo sta infatti in questa contraddizione, vivere diviso tra il desiderio di una tutela che lo sollevi dal tormento del decidere e l'aspirazione alla libertà individuale.
Fèdor Dostoevskij è uno dei più grandi scrittori di ogni tempo. Le sue opere sono annoverate tra i capolavori della letteratura di ogni epoca e luogo e, ancora oggi, nutrono lettori di tutto il mondo. Sono romanzi totali, monumenti letterari che contengono un sapere universale e manifestano la complessità della nostra esistenza travalicando confini e generazioni. Così le Lettere che Dostoevskij ha affidato alle mani dei suoi familiari, dei suoi amori, dei suoi sodali costituiscono, come scrive Alice Farina nell'introduzione, «il romanzo di una vita», «un'opera letteraria parallela all'opera, ma anche sorgente viva per l'opera stessa». E difatti sembrano traboccare di materiale romanzesco: l'arresto per aver frequentato un circolo di socialisti utopici, la condanna a morte, la grazia ottenuta pochi minuti prima di salire al patibolo; il confino in Siberia e la persecuzione della malattia; la continua e strenua battaglia per migliorare la propria condizione economica senza sacrificare nulla della propria arte. Ma questo materiale è qui innestato all'interno di una vita, la quale non può che diventare a sua volta sorgente creativa, in un continuo gioco di vasi comunicanti. Per buona parte inedite in Italia, queste pagine testimoniano poi gli scatti e le evoluzioni del pensiero di Dostoevskij, permettendoci di osservarne da vicino i movimenti interiori, come quando nel 1839, a soli diciotto anni, dichiara con orgoglio al fratello di voler dedicare la propria vita a svelare il mistero dell'essere umano. Le Lettere qui raccolte - ora interamente ritradotte, a comporre l'epistolario di Dostoevskij più completo mai pubblicato in Italia - raccontano questa missione; tracciano le linee di un'autobiografia intima e coinvolgente e rivelano una personalità infuocata, dedita alla letteratura fino allo stremo delle forze; offrono un nuovo sguardo sul suo percorso intellettuale e sulla genesi di opere che hanno cambiato per sempre la letteratura, sollevando interrogativi che ancora reclamano risposte. Sono la lente d'ingrandimento sulla vita di uno scrittore che ha esplorato gli abissi della condizione umana e ne è uscito più vivo che mai.
Dostoevskij ci attrae a sé come grande filosofo e teologo, ma non potremo cogliere pienamente il senso delle sue parole senza imparare a leggere il suo linguaggio artistico. Il sogno di un uomo ridicolo e gli altri racconti del Diario di uno scrittore, presentati in questo volume in una nuova traduzione ampiamente commentata, sono testi artistici che l'autore offre ai lettori parallelamente agli articoli di pubblicistica, in cui esprime quasi esplicitamente le sue idee e rappresentano quindi uno strumento unico per cogliere tutta la profondità del suo pensiero.
"Delitto e castigo", il romanzo più famoso di Dostoevskij, e uno dei capolavori della letteratura mondiale, narra le vicende del giovane Raskolnikov, sullo sfondo cupo e claustrofobico di una Pietroburgo degradata che diviene l'immagine esterna della desolazione interiore che abita i personaggi. Raskolnikov divide il mondo in due categorie di uomini: da una parte gli "uomini superiori" che possono stare al di là di ogni valore costituito, e dall'altra gli uomini ordinari. Lui, appartenendo alla seconda, compie un gesto estremo per dimostrare al mondo di essere un "uomo superiore", salvo poi subire le terribili conseguenze del suo gesto e accettare la sofferenza (il castigo) che ne deriva. Nel romanzo sono tre i filoni narrativi che si intrecciano: (la vita di Raskolnikov, le vicende dei Marmeladov e le vicende sentimentali di Dunja, sorella del protagonista) e che vanno a comporre il primo grande romanzo polifonico di Dostoevskij. Traduzione e lettura ad alta voce: Claudio Carini.
Quando, nel 1859, Dostoevskij ottenne il permesso di rientrare dalla deportazione nella Russia europea, aveva bisogno di qualcosa di clamoroso per riaffermare la propria posizione nel panorama letterario dell'epoca. Fu così che nella primavera del 1860 si dedicò alla stesura di un roman-feuilleton pieno di situazioni estreme, spregiudicate, delle quali si parlava con relativa disinvoltura, incentrate sul tema della fanciulla offesa e vittima di individui senza scrupoli. Sedotte e abbandonate: questo è il destino delle donne in "Umiliati e offesi". Ma anche maledette dai propri padri. L'occhio di Dostoevskij si sofferma ad analizzare la relazione padre/figlia, e lo fa tramutandola nel nucleo portante della narrazione: sono ben tre le coppie di padri e figlie che si avvicendano nelle pagine del romanzo, portando avanti ciascuna una linea narrativa e una modalità esistenziale che conducono a una conclusione differente. Le vicende sono tenute assieme dalla presenza del narratore Ivan Petrovic, che per tutto il romanzo si sposta frenetico da una casa all'altra, fungendo da testimone oculare e, alla fine, da vero e proprio deus ex machina. In questa figura si manifesta il tormento di Dostoevskij, giunto al punto di svolta della propria creatività e alla ricerca di un nuovo modello di narratore.
«Immaginate un uomo la cui moglie, suicidatasi alcune ore prima gettandosi dalla finestra, sia stesa davanti a lui su un tavolo» scrive Dostoevskij nel presentare ai lettori questo racconto perfetto, che di quell'uomo restituisce, con stenografica precisione, il soliloquio delirante e sconnesso, tutto esitazioni, ripetizioni, contraddizioni, pause, balbettii, ripensamenti. Di lui sentiamo i gemiti, e perfino l'eco dei passi che tornano in continuazione al cadavere steso sul tavolo. L'uomo, quarantuno anni, ex capitano cacciato da un illustre reggimento con l'accusa di viltà e ora titolare di un banco dei pegni, non è un giusto, ma nemmeno un inveterato criminale. È semmai parente stretto dell'Uomo del sottosuolo, con cui ha in comune la rabbia dell'individuo rifiutato dalla società, l'istinto dell'animale braccato. Sragionando ad alta voce, cerca di capire e ricostruire le cause della catastrofe. Ha amato la Mite, ma torturandola con le parole e ancor più con il silenzio, con il perverso «sistema» ideato per vendicarsi di un'antica offesa e ritrovare la dignità perduta. E ora continua a chiedersi: «Perché questa donna è morta?». Genio guastatore, maestro nel far saltare i ponti dei legami causali, Dostoevskij gli nega - e lo nega ai lettori - il sollievo di una spiegazione univoca, definitiva. E il monologo si sgretola in un dialogo con immaginari interlocutori: giudici? avvocati d'ufficio? fantasmi?
Il romanzo è così straordinariamente intessuto di riflessione politica, ideologica e psico-sociologica che non si lascia afferrare pienamente nella sua complessità a una prima lettura. Ne occorrono molte. Ma fin dall'inizio, anche al lettore meno avvertito, s'imprime con stupefacente verità umana il dramma dell'unico vero protagonista: Nicolai Stavroghin. Un enorme concentrato di energia fisica e intellettuale senza direzione, di potenzialità immensa destinata, priva com'è di ogni autentico fine, alla corruzione e alla dannazione di tutto ciò che con essa viene a contatto. Destinata, infine, all'autodistruzione nel più assoluto vuoto di senso. Il vero Demone del romanzo non è lo spietato e cinico terrorista nichilista, ma la "pazzia morale" del protagonista, che fomenta tutto il male possibile per una sorta di celia accidiosa, senza godimento, senza partecipazione, senza rimorso, senza nostalgia del bene irrimediabilmente distrutto.